06 Mag

Psicologia e Cinofilia: osmosi tra due professioni

LA PSICOLOGIA DELL’ETÀ EVOLUTIVA INCONTRA LA CINOFILIA:

consapevolezza psicofisiologica e legame di attaccamento

 

by Elena Shumilova
by Elena Shumilova

di Tiziana Franceschini

 

Introduzione

Nel 2007, quando Riccardo Totino mi ha proposto di insegnare psicologia generale agli educatori cinofili, ho accolto l’idea come una sfida aperta. Come era possibile trasporre le mie conoscenze in un ambito così diverso, un contesto di lavoro a me sconosciuto? Le uniche certezze che avevo erano due: il fatto che se la teoria dell’attaccamento era nata in ambito etologico forse mi poteva essere di aiuto e la certezza di aver condiviso diversi anni della mia vita con un cane. Spinta dalla voglia di accettare questa sfida professionale, resisto alla tentazione di stilare subito un programma delle lezioni e chiedo a Riccardo di passare un po’ di tempo con lui per vederlo lavorare. Osservo come riceve e ascolta le persone, come si relaziona a loro e ai loro cani e dopo ogni incontro rimaniamo a parlare.

Mettiamo a confronto il nostro lavoro per scoprire molte analogie nel modo di porci con i clienti e nell’approccio alle difficoltà che motivano una richiesta di aiuto. Ci accumuna l’attenzione data non tanto e non solo ai problemi che conducono le persone da noi, quanto alla relazione profonda che per qualche strana alchimia dà origine ai problemi osservabili in superficie. Mi stupisco a sentire Riccardo dire ai suoi clienti le stesse cose che io dico a coloro che chiamo pazienti e ci ritroviamo a parlare della relazione con i bambini e con i cani in termini simili. Rincuorata da questo senso di familiarità, inizio a definire un programma di lezioni, che negli anni a venire si fa più mirato e più ricco e, parallelamente, metto a fuoco sempre meglio in cosa possano consistere questi presupposti comuni che hanno a che fare con la relazione tra genitori e bambini e tra umani e cani. L’articolo che segue è il tentativo di rendere condivisibili queste riflessioni, allo scopo di raccontare secondo la mia esperienza quale apporto può dare alla cinofilia la psicologia dell’età evolutiva e, in particolare, la teoria dell’attaccamento.

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  1. Dipendenza e attaccamento

Cane e bambino vivono in uno stato di dipendenza: un neonato lasciato a se stesso non ha possibilità di sopravvivenza, mentre un cane che entra a far parte di una famiglia umana si abitua presto a essere nutrito e protetto. La dipendenza è materiale e affettiva, perché siamo tutti animali sociali e abbiamo bisogno del contatto e della relazione con l’altro per apprendere e per crescere. La società contemporanea accentua questo aspetto di dipendenza: i cani per lo più vivono in contesti urbanizzati che non sono tarati sulle loro esigenze e, parallelamente, le tappe dello sviluppo psicosociale prolungano sempre più lo stato di dipendenza nei cuccioli di uomo. I bambini hanno bisogno di un lungo processo di scolarizzazione e acculturazione per apprendere sia le conoscenze culturali accumulate nei secoli, sia gli strumenti e le norme necessari a vivere nella società di appartenenza.

Dal punto di vista psicologico, la dipendenza sostiene la formazione di un legame di attaccamento, definibile come “quell’insieme di comportamenti mirati a mantenere la prossimità verso una persona che viene riconosciuta in grado di affrontare il mondo in modo adeguato”. Nel bambino l’attaccamento si manifesta come ricerca del contatto fisico e della vicinanza alle figure di riferimento, allo scopo di avere una base sicura, quel senso di sicurezza che rende possibile l’esplorazione dell’ambiente. Negli anni l’attaccamento evolve diventando sempre più biunivoco, come avviene nella coppia, dove la dipendenza è prettamente affettiva e reciproca.

Con il cane succede qualcosa di simile nasce all’interno della cucciolata e continua a svilupparsi anche in seguito con gli umani di riferimento. Chiunque abbia un animale domestico sa quanto sia forte il legame che si instaura.

Quello che la psicologia aggiunge alle conoscenze etologiche è che l’attaccamento non solo trasmette un senso di protezione che è alla base della sicurezza personale, ma fa da tramite per l’apprendimento di una serie di modelli che hanno a che fare con la rappresentazione di sé, dell’altro e del mondo. Questi schemi, chiamati modelli operativi interni, vengono trasmessi dalle figure di riferimento in modo per lo più inconsapevole, tramite una forma di comunicazione che non utilizza il canale verbale, ma piuttosto quello emotivo-comportamentale.

Se l’attaccamento avviene in un ambiente sicuro, la relazione veicola rappresentazioni positive: pensiamo a noi stessi come degni delle cure che riceviamo e capaci di affrontare il mondo, sviluppiamo un’idea di cosa sia una relazione nutrita dall’amore e ci rappresentiamo l’ambiente come un posto sicuro. Al contrario, se l’attaccamento non è ottimale, i modelli operativi interni si formano sulla base delle difese necessarie a fare fronte alle difficoltà.

Il motivo per cui le prime relazioni di cura sono così importanti è che senza rendercene conto tendiamo a riproporre i modelli operativi interni che ci sono stati trasmessi: per tutta la vita quando instauriamo un legame affettivo (con un amico, il partner, un figlio) agiamo secondo una rappresentazione mentale, affettiva e comportamentale di cosa siano l’amore e l’accudimento.

Questo è più o meno quello che volevo insegnare agli educatori cinofili del corso di Totino, ma l’esperienza con il mio cane mi ha aiutato ad andare oltre. Quando apriamo la nostra casa e il nostro cuore a un cane si crea un rapporto intimo, un legame di attaccamento in cui riproponiamo gli schemi dominanti nella nostra vita affettiva. I modelli di attaccamento sono qualcosa di molto profondo, che tende a organizzare il comportamento, per cui ci domandiamo se la chiave di lettura dell’attaccamento possa essere utile a spiegare i problemi comportamentali che un cliente lamenta quando richiede una consulenza.

  1. Attaccamento in equilibrio tra autonomia e dipendenza

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Uno dei motivi più frequenti per cui il comportamento di un bambino o di un cane desta preoccupazione e motiva una richiesta di aiuto è legato alla questione del rapporto tra autonomia e dipendenza, cioè tra libertà e regole. Possiamo lamentare nell’altro un eccesso di autonomia, un’oppositività che mette in discussione la relazione o, al contrario, un eccesso di dipendenza, che induce ansia da separazione e inibisce l’esplorazione dell’ambiente. In entrambi i casi può risultare compromessa la socializzazione, che vuol dire bambini e cani ingestibili.

Per capire in che modo questo livello comportamentale è direttamente collegato ai modelli di attaccamento, dobbiamo sapere che un attaccamento ottimale, detto sicuro,  prevede un buon equilibrio tra autonomia (sono libero di esplorare) e dipendenza (sono legato a te che mi proteggi). Al contrario, un attaccamento insicuro genera uno squilibrio tra queste due polarità, per cui o prevale l’autonomia (sono autosufficiente e non dipendo da nessuno) o prevale la dipendenza (senza di te non posso sopravvivere in un ambiente pericoloso).

Secondo la teoria dell’attaccamento, i problemi comportamentali che possiamo riscontrare in un bambino sono direttamente collegabili ai modelli di attaccamento dell’adulto. Continuando nel nostro esempio, potremmo dire che la relazione che si genera con un figlio attorno al tema delle regole può risultare conflittuale se la nostra esperienza ci ha insegnato che le regole sono un’intollerabile forma di costrizione che limita la libertà o qualcosa di vitale perché manca la capacità di autoregolarsi oppure un imprescindibile elemento che serve a confermare l’autorità dell’altro. Questo tipo di rappresentazioni si collegano direttamente alle prime relazioni affettive, ai modelli di attaccamento.

Se il nostro attaccamento è sicuro, l’equilibrio tra autonomia e dipendenza fa sì che le regole possano essere vissute in modo sereno, come una forma di contenimento, delle indicazioni di cui chi dipende da noi (il bambino o il cane) ha bisogno per orientarsi nel mondo, cioè per adattarsi all’ambiente. Le regole non risultano essere una costrizione, ma funzionano come dei rassicuranti paletti che circoscrivono uno spazio di libertà e di sicurezza, all’interno del quale è possibile mettersi alla prova. Protezione e libertà sono due facce della stessa medaglia: la base sicura rende possibile l’esplorazione dell’ambiente. Inoltre, in presenza di un attaccamento sicuro, l’equilibrio tra queste due polarità è flessibile, perchè i modelli operativi interni sono aggiornabili, in modo da  evolvere con la relazione: il rapporto autonomia-dipendenza e le regole che delimitano i ruoli e le possibilità di ognuno sono elementi che vengono rivisti di volta in volta in funzione del contesto e del ciclo di vita. L’adattamento all’ambiente che ne deriva è la risultante di un processo dinamico di rinegoziazione continua della relazione con l’altro.

  1. Dal problema alla relazione di attaccamento

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Chiamando in causa i modelli di attaccamento, la nostra attenzione si sposta dal comportamento problematico alla relazione. Fermo restando che questa chiave di lettura può non essere adottabile in tutti i casi, è comune osservare la perplessità dei clienti quando il discorso passa dal problema segnalato al loro comportamento e, passo ancora più delicato, alle loro emozioni. In psicologia questo slittamento di prospettiva viene chiamato ridefinizione della domanda di aiuto e rappresenta un punto di svolta in cui è molto facile mettere a repentaglio la relazione con il cliente. E’ comune sentirsi rispondere: “Sì, però mio figlio ha un comportamento intollerrabile” o – come potrebbe raccontarci Totino – “Ma il cane abbaia a chiunque”. La delicatezza di questo passaggio consiste nel non far sentire giudicate le persone che ci richiedono aiuto. Se attribuiamo la problematicità all’esterno (il bambino, il partner, il cane o la società), ci sentiamo a posto e quello che facciamo è chiedere all’altro di cambiare per allinearsi alle nostre aspettative, accumulando frustazione e rabbia di fronte al fatto che l’altro non cambia solo perché glielo chiediamo. Spesso, il passo successivo è quello di chiedere a un esperto di fare quello che noi non siamo riusciti a fare: “correggere” l’altro.

Se invece ampliamo il nostro sguardo alla relazione e al sistema che insieme all’altro costituiamo, facciamo sì i conti con le nostre “responsabilità”, ma allo stesso tempo realizziamo che possiamo fare qualcosa per stare meglio. Acquistiamo la consapevolezza che, se la relazione è un sistema di cui facciamo parte, possiamo sbloccare la situazione modificando il nostro comportamento e, ancor prima, le rappresentazioni sottostanti. La problematicità attribuita all’altro è frutto dello scarto tra come l’altro è e come io vorrei che l’altro fosse, in base a una serie di aspettative che sono coerenti con i nostri modelli interni di una relazione affettiva.

Portare consapevolezza ai modelli di attaccamento ci fa cambiare prospettiva, ci chiama in causa direttamente e ci apre alla relazione con l’altro. La domanda di aiuto viene ridefinta da “aiutami a cambiare l’altro” a “aiutaci a rendere la nostra relazione più soddisfacente”.

  1. Attaccamento e relazione di aiuto

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Lo specialista a cui ci rivolgiamo, che sia uno psicoterapeuta dell’età evolutiva o un educatore cinofilo, non sta facendo il proprio lavoro se si limita a dire al proprio cliente cosa è bene fare, quali regole seguire, magari seguendo un manuale prestampato con le dieci mosse che portano alla felicità. Accettare una delega di questo tipo conferma al nostro cliente il suo senso di inefficacia, veicolandogli un messaggio non verbale più profondo: “quando si ha un problema, è bene fare ciò che ci dice chi ne sa più di noi”. Questo messaggio leggittima una politica educativa tale per cui chi è in una condizione di dipendenza (il cliente, il bambino, il cane) non impara a esercitare il proprio potere decisionale e la capacità di autoregolarsi, ma resta incompetente e diventa sempre più dipendente dall’esperto, dal genitore, dal “padrone”, dalla società e così via. Il legame di attaccamento si sbilancia verso il polo della dipendenza, motivo per cui è probabile che l’autonomia venga ricercata ed espressa in modo confuso e poco costruttivo.

Aiutare veramente un cliente vuol dire fornirgli gli strumenti per interrogarsi, riflettere e scegliere di volta in volta come comportarsi, in modo che egli stesso impari a fare lo stesso in qualità di educatore, ruolo che accomuna i genitori verso i figli e gli umani verso i loro amici a quattro zampe. Si crea uno spazio di fiducia in cui l’altro può esercitare le proprie competenze e imparare ad autoregolarsi.

In altre parole, indipedentemente dal motivo per cui un cliente viene da noi, il modo in cui ci poniamo verso la sua domanda di aiuto è di per sé un’occasione per veicolare e proporre un modello di attaccamento sicuro, in cui la dipendenza dell’altro (ho bisogno di aiuto) è in equilibrio con l’autonomia che gli permettiamo di esercitare (ce la puoi fare).

Dicevamo prima che un attaccamento sicuro è per sua natura aggiornabile, perché la persona si colloca in ascolto di se stesso e dell’altro. La relazione cresce in questo spazio di ascolto reciproco che rende possibile l’adattamento, perchè il comportamento di ognuno non è rigido e preordinato, ma è modulabile in base ai segnali che arrivano dall’ambiente interno (pensieri, sensazioni, emozioni, bisogni) e dall’ambiente esterno (le risposte che ci invia l’altro). La mente è aperta, il pensiero è flessibile, le emozioni sono elaborabili e la comunicazione risulta fluida.

Al contrario, se nella relazione con un cliente attiviamo un attaccamento insicuro, il nostro comportamento sarà inconsapevolmente guidato dalla necessità di non mettere in discussione quelle difese che ci hanno permesso di sopravvivere, difese che sono collegate a una visione rigida e non negoziabile della relazione con l’altro. Quello che facciamo sarà lavorare secondo questa visione che, come abbiamo detto, presenterà uno sbilanciamento verso il polo dell’autonomia o della dipendenza. In altre parole, un attaccamento insicuro agisce come una lente che deforma la realtà e ci impedisce di entrare in una relazione di ascolto: più che sentire di cosa hanno bisogno gli altri, tenderemo a imporre ai clienti la nostra visione di una relazione ideale e tutto ciò in completa buona fede, perché i modelli operativi interni sono per lo più inconsapevoli.

In questi termini l’osservazione dei modelli di attaccamento è a mio parere un passo obbligato per chiunque voglia svolgere una professione di aiuto.

  1. La consapevolezza psicofisiologica per l’osservazione dei modelli di attaccamento

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Se è vero che lo studio dell’attaccamento è fondamentale per chi svolge una professione di aiuto, non si deve incorrere nell’errore di pensare agli educatori cinofili come a un esercito di psicologi allo sbaraglio. Quello che credo sia utile è fare un passo indietro e riferire il discorso non tanto alla relazione di aiuto, quanto all’osservazione di noi stessi. Spesso consiglio ai nostri allievi di mettere alla prova l’utilità della teoria dell’attaccamento pensando al rapporto con il proprio cane (la stragrande maggioranza degli aspiranti educatori ne ha almeno uno).

Ma anche in questi termini ci scontriamo con un interrogativo metodologico: come fare a rendere osservabili i modeli di attaccamento se essi sono inconsci? Il paradosso ritorna dai tempi di Freud, che si domandava come fosse possibile indagare l’inconscio se per sua natura non è accessibile alla consapevolezza. Il padre della psicoanalisi risolse l’enigma guardando ai prodotti dell’inconscio, cioè i sintomi, i sogni, i lapsus e gli atti mancati. Con i modelli di attaccamento è possibile fare qualcosa di simile, osservando il modo in cui i modelli operativi interni emergono in superficie tramite le emozioni che abitano la relazione con l’altro.

L’aspetto relazionale appare fondamentale, perché l’attaccamento è veicolato dalla relazione e nella relazione è osservabile. I modelli di attaccamento si trasmettono tramite le cure fisiche all’interno di un rapporto che ha carattere emotivo. Ciò che il genitore insegna al bambino è proprio come modulare gli stati fisici, mentali e affettivi, per cui i modelli operativi interni contengono sempre queste tre dimensioni: corporea, cognitiva ed emotiva, livelli che si specchiano a vicenda nell’unità inscindibile del corpomente.

Per fare un esempio, possiamo pensare al caso in cui una persona abbia fatto esperienza in tenera età di un attaccamento sbilanciato verso la polarità dell’autonomia. Immaginiamo questo bambino che piange: egli sta manifestando una condizione di fragilità e dipendenza, che impara a gestire in base al modo in cui l’adulto risponde al suo stato. Semplificando le cose, possiamo dire che il genitore reagirà in modo “negativo” se ha un modello interno per cui la condizione di dipendenza non è accettabile né in sé né nell’altro, perché mette in discussione il senso di autoefficacia ed espone al pericolo di essere rifiutati. Il suo ideale educativo, più o meno consapevole, è quello per cui è bene insegnare al figlio a essere autonomi e autosufficienti, perché nella vita è meglio non dipendere da nessuno. Il bambino recepisce questo messaggio non verbale e capisce che deve nascondere a se stesso e agli altri la propria fragilità. L’apprendimento passa attraverso le emozioni e la loro regolazione psicofisiologica: le emozioni che non sono accolte dal genitore vengono sistematicamenete messe a tacere. Il bambino in questione impara a reprimere il pianto, probabilmente mandando in tensione la gola e controllando il respiro. La difesa che ci consente di mettere a tacere le emozioni che non trovano spazio nella relazione di cura è prima di tutto una difesa corporea: i segnali fisiologici con cui le emozioni vengono espresse sono repressi per lo più incrementando la tensione muscolare e rendendo il respiro superficiale, in modo da desensibilizzare il corpo, che è il principale strumento del sentire emotivo.

Al contrario, se il bambino che piange viene preso in braccio e consolato, egli impara a modulare l’elevata attivazione fisiologica passando a uno stato di calma e rilassamento, perchè nell’abbraccio amorevole del genitore può scogliere le tensioni muscolari e ritrovare una respirazione profonda. Il battito cardiaco e la pressione arteriosa si riassestano, i livelli degli ormoni dello stress si abbassano e il bambino familiarizza con le emozioni negative, di cui la natura ci ha fornito per rendere possibile l’adattamento all’ambiente.

In altre parole, l’apprendimento emotivo organizza il modo in cui il bambino impara ad autoregolare lo stato di arousal, informa i pensieri e le rappresentazioni di sé e dell’altro. I primissimi modelli operativi interni sono memorie psicosomatiche risalenti al periodo preverbale.

Se vogliamo portare in superficie queste memorie somatiche, se vogliamo osservare i nostri modelli di attaccamento, dobbiamo lavorare con il corpo e con le emozioni che emergono nella relazione con l’altro.

A questo scopo abbiamo strutturato il corso di psicologia generale per gli educatori cinofili di Totino affiancando alle lezioni teoriche di psicologia generale un laboratorio di consapevolezza psicofisiologica. Il laboratorio prevede delle lezioni esperenziali che si svolgono in palestra, secondo moduli di lavoro che seguono la metodologia Il corpo in relazione, frutto di una ricerca personale sul corpomente. Diversi moduli sono dedicati proprio all’osservazione dei modelli di attaccamento, resa possibile grazie alla riattualizzazione di uno stato psicofisiologico di dipendenza, che fa emergere i modelli operativi interni. Quando siamo bendati o siamo messi nella condizione di doverci appoggiare fisicamente a un’altra persona, il corpomente risponde alla dipendenza in base ai modelli interni che l’altro ci attiva.

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Lo stato di dipendenza ci permette di osservare la nostra rappresentazione della relazione: in che modo proteggiamo dagli ostacoli il compagno bendato? Riusciamo ad aiutarlo senza ostacolare la sua libertà di movimento? Nell’appoggiarci all’altro, abbiamo la fiducia necessaria ad allentare le tensioni muscolari fino a correre il rischio di cadere? In altre parole, acquisiamo consapevolezza del modo in cui stabiliamo una relazione in equilibrio tra l’autonomia (personale e dell’altro) e la dipendenza insita nel legame. L’osservazione dei nostri modelli interni è il primo passo di un lavoro molto più ampio, che prosegue fornendo alle persone gli strumenti necessari per fare esperienze nuove, una forma di apprendimento che pone le basi per la revisione e la complessificazione dei modelli di attaccamento. Tramite tutta una serie di tecniche (ginnastica posturale, massaggi, esercizi di respirazione) è possibile rendere il corpomente più stabile e più flessibile, cioè ricettivo verso l’ambiente e verso il cambiamento. Parallelamente, allenando l’ascolto sottile di sé e dell’altro, diventiamo sempre più consapevoli del linguaggio non verbale, che è il mezzo privilegiato di comunicazione tra gli uomini e gli animali.

 

Conclusioni

Dal 2007 a oggi con Riccardo Totino abbiamo fatto molta strada. La sua apertura mentale e il suo sostegno mi hanno permesso di portare avanti una ricerca, che vede nello studio psicofisiologico dei modelli di attaccamento un punto centrale. Chiediamo molto ai ragazzi che lavorano con noi e devo dire che le lezioni in palestra a volte li mettono a dura prova. Spesso osserviamo di noi delle cose che non ci piacciono, ma quando queste intuizioni arrivano ad essere globali (corporee, cognitive ed emotive) mettono un seme nel processo di crescita personale. Comprendiamo in prima persona quanto sia delicata e ricca la relazione e come sia importante costruire un rapporto di fiducia con noi stessi (il nostro corpo, le nostre emozioni, i nostri pensieri) e con l’altro (l’ambiente, il cliente, il cane). Ai nostri allievi, a cui questo articolo è dedicato, auguriamo di coltivare uno spazio di ascolto e di apertura che ci permetta di rivedere istante dopo istante il nostro adattamento. Nel nostro cammino incontriamo dei problemi, ma li chiamiamo informazioni che ci indicano in che direzione dirigere il cambiamento. E’ questo il processo con cui vogliamo acquisire familiarità per poterlo proporre un domani a chi ci chiederà aiuto.

Per saperne di più…

Jeremy Holmes, La teoria dell’attaccamento, Ed. It. Raffaello Cortina, 1994.

Daniel N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, Ed. It. Bollati Boringhieri, 1987.

A cura di Tiziana Franceschini

Psicologa dell’età evolutiva, psicoterapeuta clinica, danzatrice, regista, insegnante di teatrodanza e ginnastica posturale. Da anni porta avanti un lavoro di ricerca volto a integrare la psicoterapia all’approccio corporeo, secondo una metodologia chiamata Il corpo in relazione.

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Dott.ssa Tiziana Franceschini

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