22 Feb

Galeotto fu… anche il richiamo

Foto di Damian Barczak da Pexels

Ci sono delle pagine di Facebook in cui si pubblicano degli articoli che mi lasciano perplesso, leggo, trattengo il mio disagio, magari ne parlo con qualche amico ma il più delle volte lascio correre e cerco di dimenticare. Commentare o rispondere sono azioni che cadono troppo spesso nella polemica e non mancano occasioni in cui si finisce con gli insulti. Io non sono di questa generazione, né di questo stampo, preferisco il confronto allo scontro e i social non mi permettono di esprimermi con serenità. Anche gli integralisti devono esprimersi e divulgare le loro intransigenti idee e anche se spesso non sono d’accordo con quello che scrivono, riesco a leggere, magari senza capire ma comunque non mi sento chiamato in causa.

Leggendo un post su Facebook riguardo al richiamo del cane ho percepito un’ennesima uscita dalle righe di questa nuova cinofilia che cerca di dare un immagine del cane come di un animale a cui non è più possibile chiedere niente perché sembra che ogni cosa che gli si insegni sia motivata da un bisogno ossessivo di controllo da parte dell’essere umano. L’attacco al “richiamo” in favore della correttezza del lasciare che il cane segua con naturalezza il proprio gruppo, senza menzionare i rischi di una scelta così azzardata, accompagnato con un affondo, neanche tanto velato, alla storia della cinofilia o alla cinofilia storica, mi spinge a rimettere i miei pensieri sia in rete, sia su questa piattaforma che ormai non amo più. Scendendo, tra un paio di paragrafi troverete una copia del post che ha dato vita a questo articolo. La pagina si chiama Cinofilia Non Facile e pubblica generalmente argomenti condivisibili. Per motivi tecnici non metto il link ma non sarà difficile ritrovare il post

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse e galeotto fu anche il richiamo e chi lo insegna. Finiremo tutti a fare compagnia a Paolo Malatesta e Francesca di Rimini nel girone dei lussuriosi o forse il Sommo creerà un girone dedicato agli addestratori capo-branchisti

Ho sempre considerato il richiamo un elemento molto importante nella relazione con il cane. A differenza dell’autore/autrice del post ritengo che capire il proprio nome e l’indicazione di raggiungere il resto del gruppo sia una risorsa e non un problema. Rispondere a un richiamo è sempre una scelta, per rispondere il cane deve essere lontano, ha il controllo del suo comportamento, potrebbe andarsene per i fatti suoi, ignorare la voce e tutto il suo gruppo. Invece sceglie di tornare, non per paura, per scelta. Credo che il richiamo, proprio per la sua caratteristica condizionata alla scelta, sia uno di quegli esercizi che, escludendo i cani con la sindrome di Stoccolma non potrà mai essere insegnato con metodi coercitivi.
Prima di continuare ad esprimere i miei pensieri credo sia necessario andare a vedere da cosa ho preso spunto

Foto di cottonbro da Pexels

IL RICHIAMO PERFETTO…

I cani non si chiamano tra di loro. Il richiamo è l’ennesimo retaggio addestrativo che deriva dalle teorie capo-branchiste e della gerarchia verticale che prevede il controllo di un membro del branco su un altro.
n realtà un cucciolo si allontana e riavvicina alla sua “base sicura” compiendo il cosiddetto “andamento a stella”, il cui centro siamo noi.
Crescendo, ed acquistando sicurezza, l’adolescente tenderà mano mano ad allontanarsi dal proprio branco compiendo movimenti concentrici, sempre più ampi, ma continuando ad orbitare sempre intorno alla propria base sicura.
Fondamentalmente un cane torna istintivamente dal proprio branco
Il più delle volte non gli viene dato modo di sperimentarlo richiamandolo prima che lui torni spontaneamente. Bisognerebbe cominciare a parlare di “ritorno” anziché di “richiamo”.
È molto “strano” per un cane allontanarsi tanto dal proprio branco. Il più delle volte questo comportamento è dovuto proprio a scarichi di stress dovuti a squilibri nella relazione o proprio ai continui richiami immotivati dei proprietari.

Ecco!, L’autore/autrice inizia proprio così: “I cani non si chiamano tra di loro”
Questo incipit mi ha gelato. Tutta una vita dedicata alla comunicazione con i cani e tra cani e devo rimettere in discussione tutto?

— Cosa fa Linda quando attiva Molly e Strega per farle andare ad abbaiare al cane che sta passando davanti casa? E perché loro vanno?

E ancora
— Come definire dunque il comportamento dei cani sentinella quando devono avvisare il cane grande che c’è un pericolo in agguato?

— E perché quando un lupo inizia a ululare gli altri lo raggiungono e ululano insieme? Giusta osservazione: il cane non è un lupo!

Ho ancora una domanda
— Se anche fosse vero, ma vero non è, che tra loro non si chiamano, cosa ci sarebbe di sbagliato se, quando siamo noi a chiamarli, loro ci rispondono serenamente?

Poi continua
“Il richiamo è l’ennesimo retaggio addestrativo che deriva dalle teorie capo-branchiste e della gerarchia verticale che prevede il controllo di un membro del branco su un altro” Tra tutti i retaggi che oggi si stanno rivelando inadeguati per i nostri tempi, abitudini e costumi penso che il richiamo sia una di quelle cose che potremmo portarci ancora dietro con serenità perché non va a minare la realizzazione della vita di un cane anzi lo rende più libero.
Lo rende più libero perché se è un cane pacifico e riconosce il richiamo si può allontanare per esplorare alla sua velocità senza doverlo mantenere necessariamente sotto il controllo visivo.
Personalmente considero il richiamo una risorsa anche per il cane e mai un problema.

Facendo questo lavoro da tanti anni e avendo sperimentato veramente tante strade, ritengo che dovremmo porre la nostra attenzione non tanto a cosa facciamo e cosa chiediamo al cane, ma al come! Il come rappresenta la relazione e quindi lo stato emotivo, rappresenta il 93% degli elementi che permettono a due persone di comprendere il significato di ciò che viene detto, alle parole rimane solo un misero 7% di importanza. Pensate di quanto può salire questa percentuale quando il nostro interlocutore è un cane. Quindi se vogliamo insegnare al cane a tornare non cambierà se lo definiamo ritorno (come suggerisce l’autore) anziché richiamo, cambierà invece se gli facciamo sentire che vicino a noi è al sicuro, o che la sua sicurezza se ne sta a torna’ a casa e si nun se sbriga rimane da solo ar parco, così poi vedemo che se magna.

Altro aspetto che questo post non prende in esame è il cane in città. Sono un educatore e di cani che non tornano al richiamo, ma quando decidono loro, ne ho visti veramente tanti.

Foto di Ramon Linares da Pexels

Come ben sappiamo per poter garantire al proprio cane una qualità di vita accettabile, il miglior cibo e le prestazioni veterinarie il proprietario, se non vive di rendita, deve andare a lavorare. La conseguenza di un comportamento evitante o di fuga dà origine a passeggiate rigorosamente al guinzaglio. Se quel cane al mattino si accontentasse dei dieci minuti, invece di dimostrare di non essere in grado di gestire la frustrazione e rispondesse al richiamo, anche lui sarebbe più libero.

Bello e bucolico è lasciare i propri cani liberi di andare nel bosco e tornare quando vogliono: una mia collega lo fa e suoi cani sono felici. Sono meticci da caccia, tornano in condizioni “che ve lo dico a fa’” ma pienamente soddisfatti. Lei vive molto in periferia e può usufruire di spazi verdi tra campi trascurati e quelli coltivati. Lei può rischiarsela perché i suoi cani sono molto mansueti, ma di cinque che vivono con lei soltanto due hanno questo permesso, gli altri sono: uno troppo piccolo, l’altra troppo grande e la terza non ha le competenze per potersi allontanare da sola. Io personalmente non potrei, sia per il mio senso civico, sia per la tipologia di cani. Una mia ex compagna aveva un cane prevalentemente libero che è morto avvelenato, nello stesso modo è morto Geronimo, un altro cane di una mia ex cliente diventata poi un’amica. Helmut e Geronimo hanno vissuto dieci anni decisamente felici, il cane amico di Geronimo, che era con lui quando si sono avvelenati non ha avuto lo stesso tempo. Solo un anno e mezzo sulla terra. Forse ora correrà felice sui prati di Manitù, ma qui ci è rimasto veramente molto poco.

E poi, anche come professionista, devo tenere conto delle leggi e dei regolamenti.

Foto di Anna Shvets da Pexels

Sto svelando un segreto e vi prego di mantenere il massimo riserbo. In Italia ci sono leggi ben precise sulla gestione/conduzione dei cani, ma c’è anche molta libertà per noi proprietari. Qui si possono osservare situazioni che nel resto dell’Europa sono inimmaginabili: aree cani senza recinzioni, cani liberi in ogni dove, accesso nei luoghi pubblici senza museruole, anche se la legge è molto chiara:
è vietato condurre cani liberi se non nelle apposite aree disposte dai comuni.
Non è obbligatorio far indossare la museruola al cane, ma è obbligatorio averla al seguito e metterla se richiesto da un pubblico ufficiale. Tuttavia come da costume, facciamo tutti un po’ come ci piace e ci muoviamo con i nostri cani conducendoli nei modi più insicuri possibili.

Non dico niente di nuovo quando sostengo che se libero il cane sul marciapiede di una strada molto trafficata devo essere molto sicuro che lui non attraversi senza il mio consenso (controllo n°1), che ignori i passanti, i bambini che corrono, gli altri cani e i gatti che sotto le macchine soprattutto se sono dall’altro lato della strada (controllo n° 2, 3, 4 e 5); se libero il mio pit bull in un’area cani devo essere sicuro di poterlo raggiungere, o farmi raggiungere, nel caso stesse per entrare un altro cane che lui considera un nemico (controllo n° 6); se libero il mio cane da caccia in un parco con fauna protetta devo essere sicuro che si fermi e torni da me prima che riesca ad uccidere una nidiata di fagiani (controllo n° 7), se conduco il mio malinois libero in una zona dove possono comparire delle persone all’improvviso devo essere sicuro che non le attacchi e che si fermi al mio segnale (controllo n° 8). Quando, in uno di questi casi, i “controlli” non dovessero funzionare potrei essere denunciato per omessa custodia e finire con una denuncia penale oltre a tutti i problemi civili che ne conseguono. Per poter eventualmente pagare i danni devo essere sicuro di poter andare a lavorare senza essere licenziato e torniamo al punto del lavoro condizionato da un orario. I controlli funzionali, a differenza di quelli paranoico/compulsivo, non rappresentano una patologia, sono forme di adattamento all’ambiente legate all’apprendimento e alla funzione del cervello ragionativo. I cani dispongono di un sistema nervoso che consente loro di attivare diversi processi cognitivi e imparano a rispondere a un richiamo in modo naturale.

Un altro argomento che mi lascia perplesso è questa diffusa idea di cercare di capire cosa facciano tra di loro i cani liberi e di riportarlo al cane che invece vive con gli umani. Così come gli studi sui lupi in cattività danno delle risposte diverse dagli studi sui lupi liberi, così dovremmo scindere lo studio dei cani ferali, vacanti e semivacanti da quelli di proprietà.
L’interazione diretta con l’uomo permette a questo animale di concentrare tutte le sue attenzioni ad attività non legate alla sopravvivenza. I loro bisogni primari sono soddisfatti a prescindere dalle loro attività, la predazione è un gioco e non un bisogno, la guardia e la difesa sono limitate dai muri, dalle porte chiuse e dal guinzaglio, così come sono condizionate le loro attività sessuali. I cani che vivono in casa si possono permettere il lusso di pensare solo a giocare perché a garantirgli cibo e sicurezza ci pensiamo noi. Che senso ha fare un confronto con il cane libero?

Questi punti sono sviluppati in modo molto sommario e sono solo alcuni degli argomenti che entrano in gioco quando parliamo di relazione con il cane. Se volessimo vivere un rapporto alla pari con il nostro cane, consentirgli di girare libero senza barriere architettoniche dovremmo trasferirci su un’isola deserta dove non ci sarebbe nessun problema.

Questo contestato post di autore ignoto potrebbe anche essere interessante perché, fermo restando che un buon addestramento, come un buon allenamento, migliora inevitabilmente qualsiasi prestazione, in fondo (molto in fondo) ci dice che il richiamo insegnato non esiste, che l’appartenenza al gruppo è genetica e un buon richiamo dipende più dalla natura del cane che non dall’abilità dell’addestratore, ma scritto così, come una pillolina, credo sia estremamente fuorviante per un lettore non esperto.
Trovo però discutibile il generico attacco all’addestramento del cane perché anche se si può e si deve, denunciare la cattiva cinofilia per i modi inutili e violenti che spesso utilizzano per insegnare a prescindere da ciò che insegnano, si deve anche distinguerla da quella buona che utilizza metodologie che rispettano i processi di apprendimento, coinvolge piacevolmente il cane nelle attività e hanno riguardo per l’individualità del cane.
Tornando al richiamo può essere utile considerare l’importanza dell’equilibrio tra attaccamento (il bisogno di riferirsi a un gruppo) ed esplorazione (il bisogno di esperienze individuali) equilibrio che nel cane è stato fortemente compromesso sia dalla pressione selettiva, sia dall’ambiente in cui vive, basti osservarne la differenza tra un dobermann (dipendenza estrema) e un beagle (l’indipendenza fatta cane). L’analisi di questo equilibrio può essere solo individuale ma deve tener conto di un insieme fatto da un lato delle peculiarità di specie, dell’etogramma, delle caratteristiche e memorie di razza, dall’altro l’importanza del genotipo e la valutazione di quanto l’ambiente e i conseguenti processi di apprendimento ne abbiano condizionato l’espressione fenotipica.

Chi si occupa di comportamento del cane riceve richieste di aiuto dai proprietari di cani tra cui quella di insegnare al cane a rispondere al richiamo. Un bravo educa/addestra/istruttore insegna al proprietario cosa fare per rendersi più interessante di qualsiasi altro stimolo facendo pressione proprio sul senso di appartenenza che lega il cane a noi da quattordicimila anni. Poi c’è anche il richiamo sportivo, ma quello è un esercizio e ci vorrebbe un articolo a sé.

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