20 Feb

Mi chiamo NO!

Mi Chiamo No!

Ma davvero non si può o non si deve dire: «No!» al nostro cane!?

Realmente cambia qualcosa se lo sostituiamo con: «Ah, ah!» oppure: «Eh,eh!»?

E se invece provassimo a pensare che l’uso continuato e improprio dei segnali di errori, indipendentemente da quale si scelga di utilizzare, provochi nel cane frustrazione e conseguente indifferenza al segnale stesso?

Chi mi consoce sa bene della mia convinzione che non esista un metodo universale, funzionale nell’educazione del cane e sa anche quanto io sia consapevole che, quanto affermo, sia solo una delle tante voci che orbitano nel contrastante e agguerrito mondo della cinofilia. Ho sempre cercato di agire con Buon Senso mettendo in discussione tutte le “verità/esagerazioni/assolutismi” che negli anni hanno tentato di affermarsi in questo settore.

Sull’uso del “no” da parte dei proprietari si potrebbe scrivere un intero libro. Un cane salta addosso per salutare e prontissimamente gli arriva il “no!”, mette il naso vicino al tavolo per capire cosa c’è sopra e… “no!”, si sta per uscire, vede la porta che si sta aprendo, lui gioioso va… e un altro “No!” e così via.

Mi chiamo No!Posto in questo modo appare chiaro che il povero cane crescerà pensando di non azzeccarne una giusta, che ogni cosa che a lui sembra normale agli umani non vada bene e siccome in genere non gli si spiega cosa avrebbe dovuto fare in alternativa, imparerà presto a ignorare qualsiasi segnale di errore.

Quindi  dobbiamo smettere di utilizzare il “No” come segnale di errore?

Oppure sarebbe meglio provare a far luce sui meccanismi di apprendimento cercando  di capire come utilizzare al meglio e in modo coerente i segnali di approvazione e quelli di errore?

Segnalare un errore non significa suggerire la risposta giusta, anzi… quindi è opportuno che il proprietario/educatore abbia chiara la finalità dell’insegnamento che sta proponendo. Molti dei proprietari che si rivolgono a me chiedono come insegnare al loro cane a non saltare addosso, a non scappare, a non abbaiare o a non tirare al guinzaglio. Questa scuola di pensiero prevede che non si possa insegnare a non fare qualcosa, invece si può e si deve insegnare a fare ciò che noi abbiamo in mente: per ogni comportamento indesiderato ce n’è uno contrario e corretto ed è quello che noi dobbiamo proporre al nostro cane.Tabella mi chiamo no!All’atto pratico non cambia molto tra “non saltare addosso” e “rimanere con le zampe a terra”, il senso è lo stesso, quello che cambia è il comportamento su cui poniamo la nostra attenzione e di conseguenza la nostra reazione. Focalizzando l’attenzione sull’errore saremo chiusi, aggressivi e punitivi, concentrandoci invece sul risultato, non appena ci avvicineremo alla meta reagiremo con entusiasmo, gioia e gratificazione e per il cane sarà più facile comprendere i nostri intenti. Un esempio che chiarisce bene l’idea che voglio esporre è quello della condotta al guinzaglio: immaginiamo di uscire di casa pensando che il cane non dovrà  tirare al guinzaglio, il nostro cervello rimarrà quindi  in attesa dell’evento che abbiamo in mente e cioè su ciò che non dovrà  accadere. Non appena il guinzaglio andrà  in tensione il nostro cervello si attiverà e il nostro pensiero sarà: «Ora sta sbagliando, lo devo correggere!» il nostro corpo reagirà di conseguenza: partirà immediatamente il “No!”, la strattonata e la conseguente insofferenza. Immaginiamo invece di essere con lo stesso cane e che stiamo uscendo di casa pensando che vogliamo insegnargli/spiegargli che quando si cammina, il guinzaglio deve rimanere lento: tutte le volte che riusciremo nel nostro intento saremo contenti e sarà più facile approvare il comportamento. Appena apriamo la porta il cane andrà spontaneamente verso le scale o l’ascensore…

applicando il seguente schema il cane dovrebbe imparare velocemente e con piacere:

  1. in silenzio rimaniamo fermi e allentiamo il guinzaglio, non appena non si sentirà più trattenuto si spingerà in avanti, lo riportiamo indietro di pochi centimetri e allentiamo di nuovo, ripetiamo la sequenza (in genere tre o quattro volte ) fino a che il cane si fermerà aspettando la nostra prossima mossa. In questo momento premiamo il cane con la voce o con un bocconcino e comunque una carezza.
  2. ora che abbiamo l’attenzione del nostro cane cerchiamo di non perderla iniziando a parlare con lui: «Ok, bravo cane… sei pronto?» e mentre stiamo facendo il primo passo gli diciamo: «Andiamo!»

E lui si lancerà di nuovo verso le scale!

Ci fermiamo di nuovo, riportiamo con calma il cane al punto di partenza e senza alterare il nostro umore, ricominciamo dal punto 1. Ricordiamoci sempre che un cane non impara alla prima spiegazione, ha bisogno che un evento si ripeta più volte prima di analizzarlo e cambiare idea o comportamento. Molti cani, prima di abbandonare definitivamente il comportamento che abbiamo corretto, hanno bisogno anche di riproporlo più volte per verificarne la sua inefficacia in contesti differenti. Per questo motivo non c’è nessuna ragione di alterarsi durante l’insegnamento di un esercizio o di una regola: l’errore è parte fondamentale dell’apprendimento e per questo deve essere apprezzato.

Non ci vorrà molto tempo prima che il nostro allievo inizi a prendere le misure con il nuovo comportamento del proprietario e a comprendere i vantaggi del rimanere vicino a lui. È chiaro che non potremmo pretendere da lui una condotta perfetta nel giro di poche ore, ma è sicuramente il miglior modo per iniziare a spiegargli come vorremmo che lui si comportasse. I piccoli passi portano molto lontano e ci permettono di apprezzare le piccole cose, i passi lunghi possono far male e bloccarci per lunghi periodi. Per questo motivo preferisco iniziare questo lavoro dopo averlo fatto sfogare un po’ il cane e soprattutto dopo che è riuscito a liberarsi dai bisogni impellenti. Sarà più facile per lui concentrarsi se sarà libero da necessità. Sarà più facile per lui concentrarsi se sarà libero da necessità. In fase di apprendimento più l’ambiente è ottimizzato, maggiore sarà la concentrazione, elemento indispensabile per imparare e memorizzare, quindi in un primo momento potrebbe essere utile far uscire il cane senza chiedergli niente, riportarlo a casa e riproporre subito una seconda uscita a scopo didattico.

Rispettando i tempi necessari affinché lui si abitui alle nuove disposizioni passerà da due tre passi fatti bene a una condotta quotidiana più che accettabile. In questa fase introdurre un segnale di errore come il “no!” nel momento in cui inizia ad accelerare è funzionale e indica al cane il momento esatto in cui sta (passatemi il termine) sbagliando. Se, come probabile, rallenta deve essere gratificato: a volte con la voce e un bocconcino, altre soltanto verbalmente.

In questo percorso non c’è bisogno di correggere il cane con minacce o punizioni, il semplice fermarsi rappresenta per lui tanto un impedimento nel raggiungere il suo obiettivo, quanto un comportamento apprezzato e nel tempo, la corretta condotta gli permetterà di arrivare comunque dove vuole ma in modo decisamente più comodo sia per lui, sia per chi è dall’altra parte del guinzaglio.

Bisogna essere consapevoli che un apprendimento si consolida nel tempo, che la coerenza, la costanza e la reiterazione sono fattori indispensabili affinché un insegnamento si trasformi in una regola di comportamento che il cane farà sua. Quando questo avverrà non ci sarà più bisogno di impartire comandi perché il cane camminerà spontaneamente al nostro passo.

Un’altra cosa importante da considerare quando ci relazioniamo con il cane è il modo in cui ci esprimiamo. Le emozioni trasmesse attraverso la voce e la postura (linguaggio verbale e non verbale) sono più rappresentative di ciò che viene detto. La parola “Bravo” per essere efficace deve contenere entusiasmo, stima e/o fierezza in relazione al comportamento messo in atto dal cane. L’utilizzo delle parole è sempre accompagnato da quello che viene definito “paralinguistico vocale” e cioè tutto ciò che di emotivo/visivo viene inserito nella parola detta. L’introduzione delle emoticon o faccine nella messaggistica multimediale ha consentito di trasformare un messaggio breve e sterile in un’informazione emotivamente significativa, compensando quindi l’assenza del paralinguistico vocale. Nel linguaggio verbale la differenza tra un umano e un robot sta nella capacità che abbiamo noi di inserire emozioni nel tono, nella postura e nella dialettica stessa. Un «bravo» è diverso da «braaavoo…» che a sua volta si differenzia da un «Ma che BRAVO!». La parola è sempre la stessa, ma quello che fa la differenza è il “come” viene espressa, che poi è proprio quello a cui il cane fa riferimento. Se i toni sono coerenti con l’emozione che si sta vivendo per il cane sarà più facile comprenderci, perché tutto il nostro modo di esprimerci (dialettica, tono e postura) sarà privo di contraddizioni. Ricordiamoci sempre che la parte del nostro cervello che entra più facilmente in relazione con il cane è quella emotiva e non quella ragionativa.

Riepilogando…

Bisogna imparare a focalizzare la nostra attenzione sulla soluzione e non sul problema, cioè imparare a pensare: «Questo comportamento per me è un problema, cosa vorrei che il mio cane imparasse a fare in alternativa?» e l’oggetto del nostro pensiero deve essere l’alternativa, non il problema.

L’obiettivo è gioire quando risolviamo e non arrabbiarsi quando si presenta il problema.

Così facendo quando chiederemo a un cane come si chiama magari ci risponderà:

«Ciao, io mi chiamo BRAVO!»Mi chiamo no

Riccardo Totino